Ho rimandato per molto tempo la
stesura di questo scritto. Questo disco è legato a tanti ricordi e per
questo ho sempre evitato di mettere nero su bianco una “descrizione” dei
fatti narrati in quest’album e ringrazio la PFM per
avermi dato la spinta giusta a decidermi. Premetto che quanto riportato
non vuole urtare la sensibilità di nessun credente e spera di non essere
blasfemo, visto che si tratta di argomento religioso. Sono pronto a
modificare quanto scritto qualora, involontariamente, offendessi il
sentire di qualsiasi persona che si ritiene “Cristiana”.
Se poi, alla fine della lettura, non
avrete indovinato il mio “pensiero” riguardo la materia in oggetto
allora mi riterrò più che soddisfatto: voglio parlare di Gesù
Cristo con estrema libertà di “movimento” al fine di descrivere la
grandezza di un album e del sentire dell’artista che lo ha realizzato.
L’album all’epoca della sua uscita
fu, neanche ascoltato probabilmente, censurato dalla Rai. Solo più tardi
la Chiesa lo sdoganò.
In tutte le dieci canzoni dell’album
della durata complessiva di circa 34 minuti si parla dell’aspetto
strettamente umano delle vicende di Maria (traendo ispirazione dalla
lettura dei vangeli apocrifi) e in generale di quanto accadde intorno a
Gesù, e quindi un “vangelo” quasi complementare a quelli ufficialmente
accettati dalla Chiesa. E’ un “completamento” umano della vicenda più
che qualcosa di blasfemo, e fortunatamente quest’aspetto fu poi
sottolineato dalla Chiesa.
Le motivazioni per cui De Andrè
scelse di scrivere di tali argomenti proprio nel 1970 lo spiega lui
stesso in diverse interviste. In particolare lui ritrovava una certa
attinenza tra la vita di Maria e di Gesù con quanto avveniva in quel
periodo nel mondo giovanile.
Lo scrivere, nel far proprio persino
la “storia delle storie”, era testimonianza di quella ribellione, di
quell’appoggio ai diritti delle donne (si parla soprattutto di Maria,
ricordiamocene), degli svantaggiati (vedi il testamento di Tito), di
condanna dell’ipocrisia, del sostegno alla pace che è insito nella
storia di Gesù Cristo.
Arrangiato da Gian Piero Reverberi che con le Orme
(e non solo) avrà molto a che fare con il progressive, il disco si pone
in maniera distaccata rispetto a quanto viene narrato. Mi spiego. Lo
stesso De Andrè pare non voler intervenire eccessivamente in quanto
scritto, l’uso del coro, delle atmosfere usate ricorda certe opere
teatrali dell’ellenismo classico: si narra dell’ineluttabile e come tale
ci si pone in serafica posizione.
Atteggiamento molto rischioso ma dal risultato eccezionale.
Il concept è diviso in due parti (le
due facciate del disco) una in cui si narra strettamente di Maria,
l’altra di tutto il resto intorno alla morte di Gesù.
Nel seguito riporto alcuni miei commenti, canzone per canzone.
Non pubblico l’intero testo, perché
può essere trovato altrove, ma sottolineo solo gli aspetti volutamente
divergenti da quanto conosciamo dai vangeli allo scopo di evidenziare,
si spera, l’intento dell’artista. O almeno provo a sottolineare le cose
che mi hanno più colpito, come già detto, ci sarebbe da scrivere pagine e
pagine.
Buona lettura.
Laudate Dominum
L’infanzia di Maria
L’amarezza di un’infanzia perduta e negata è scandita dal coro che sottolinea il passar del tempo, mentre Maria resta china a pregare nel tempio.
E’ sempre il coro, elemento
fondante non attribuibile ad uno solo, una verità oggettiva, a
sottolineare il momento dell’offerta di Maria come sposa al “miglior
offerente”.
Qui si fa lotteria sul corpo di una vergine, e si utilizza la stessa immagine della lotteria che si farà sulle vesti di Gesù Cristo: la donna vista come oggetto su cui l’uomo ha pieni diritti.
E come il giocare per le vesti di
un uomo posto sulla croce è riprovevole, la stessa sensazione,
amplificata dalla bramosia dell’uomo verso una fanciulla, resta scolpita nel testo e nel pathos del brano.
Leggendo anche il “Vangelo secondo Gesù” di Saramago
si intuisce come era difficile la vita delle donne al tempo di Gesù. La
posizione di sudditanza è ben sottolineata dal testo di De Andrè. Tale
visione stride con quanto riportato nei Vangeli canonici in cui da
subito, Maria viene vista come la prescelta e colei che governa il suo
destino pur seguendo la volontà del Signore.
E’ da questi particolari
sottolineati sempre dal coro che De André mette in chiaro la situazione:
se quando era bambina, come ogni bambina di 3 anni, non può opporsi
alla volontà degli adulti, da grande continua a non poter decidere della
propria vita per la volontà dell’uomo.
La bramosia dell’uomo di cui accennavo sopra, è come sempre sottolineata dal coro: “guardale gli occhi guarda la neve guarda la carne del paradiso”.
Il riferimento alla “carne” è estremamente interessante. L’accostamento
alla “carne” di Gesù, fonte di vita eterna, è immediato. Secondo il
cattolicesimo, Maria è stata assunta in cielo e quindi giustissima la
definizione di “carne del paradiso”, ma questa, nel contesto
dell’episodio narrato, invece di essere fonte di ammirazione, genera
negli uomini un sentimento di lussuria. La “carnalità” in tutto il suo
aspetto terreno, legato a quello che sarà invece il destino di questa
donna. Il desiderio mal celato degli uomini, dei pretendenti, la loro
ipocrisia nel giudicare e bramare la sposa bambina.
Ritorna la voce narrante
rassicurante di De Andrè a sottolineare la saggezza dei sacerdoti: dare
in sposa Maria a Giuseppe, persona qui descritta come vecchia, senza più
desideri sessuali. In questo modo si cercava di preservare
ulteriormente la virtù di Maria, sperando che la bimba avesse il tempo,
in un secondo matrimonio, a morte di Giuseppe avvenuta, di conoscere
giustamente un uomo. Una scelta alla “Pilato”, i sacerdoti se ne lavano
le mani: la bimba non può stare più nel tempio in quanto ormai donna, e
quindi la si pone in un’ altra clausura, quella con un vecchio.
Il vecchio poi, parte per quattro anni per dei suoi affari e ritorna a casa quando ormai Maria è incinta di qualche mese.
Il ritorno di Giuseppe
Qui è veramente commovente l’incontro di Maria che vola come una rondine
tra le braccia di suo marito, sapendo che da lì a poco si sarebbe
deciso del suo destino. E’ mirabile il modo con cui De André non usi la
parola “incinta” o “dolce attesa” o altri sinonimi, e di come descriva
quello stato come un segreto che si svela, come il segreto che solo le donne conoscono e che agli uomini non è dato sapere.
Il Sogno di Maria
La difesa di questa donna che deve
“giustificare” il suo stato al marito, con la certezza della pena (la
lapidazione) ma con la speranza che solo alla fine si concretizza in uno
sguardo di quiete in attesa del perdono. La giustificazione di Maria è
in un sogno, in cui si apprende della presenza di quest’”angelo” che
veniva a raccontare le ore a Maria nel tempio e che solo una volta “le scioglie le mani” e la fa “volare a conoscere il colore del vento”.
Il perdono di Giuseppe è quasi
scontato: Maria è più una figlia che una sposa e ad una figlia che
sbaglia è difficile dare una punizione severa quanto la morte. Giuseppe è
uomo buono, lo dimostra il fatto che regala a Maria, alla sua partenza,
una bambola di legno per farle recuperare il tempo perduto. Ma
soprattutto le regala la vita e la fede nelle sue parole, una fede che
consentirà a Maria di poter camminare a testa alta tra tutte le donne
del paese come raccontato nella successiva,
Ave Maria
Più che una lode alla Madonna è
finalmente una canzone serena che sottolinea il perdono e la felicità di
una donna che ama essere madre, che sa che tra poco partorirà con
dolore e che suo figlio è “speciale” (quale figlio non lo è per una
mamma?), ma che può essere fonte anche di invidia presso le altre del
paese.
E’, socialmente parlando, la lode
della donna che fiera delle proprie rivendicazioni cammina per le vie
della propria città, ostentando anche una gravidanza senza che fosse
sposata ad alcun uomo. Negli anni '70, come ai tempi di Cristo, era cosa
sconveniente e da non mostrare al giudizio della comunità.
E’ questo che, a mio avviso, sottolinea De André: quanto siamo progrediti, in termini di conquiste sociali, in duemila anni di storia?
Se si pensa alla realtà degli anni ‘70, in cui l’adulterio era ancora
perseguibile per legge, il messaggio di Maria era sicuramente molto
difficile da accettare.
Maria nella bottega del falegname
Abbandonato Giuseppe,
probabilmente morto, in questa canzone si sottolinea come un lavoro
onesto e virtuoso come quello di un falegname possa essere rivolto al
“male” solo dalla volontà degli uomini. Il falegname in questione, non
sta lavorando a stampelle o ad un aratro, strumenti utili per la vita
dell’uomo, ma sta costruendo croci, tre croci, o “dolori” come li chiama
De André, strumenti di tortura e sofferenza. E le tre croci sono
destinate, due per chi disertò (dalla Guerra) per rubare, e “la più grande per chi guerra insegnò a disertare”.
De André non poteva non menzionare, già da ora, perché poi ribadirà il
concetto nella finale Laudate Hominem, il messaggio pacifista insito nel
cristianesimo e comunque a lui tanto caro.
Via Della Croce
Finalmente i farisei, gli scribi e
i sacerdoti possono porre fine alla vita di un Uomo che, sebbene in
nome di Dio, sovvertiva le regole imposte stesso da Dio e che loro
facevano rispettare. Quest’aspetto è preso e approfondito anche dal già
citato “Vangelo secondo Gesù” in cui Saramago più volte
riprende il concetto che Dio, ai tempi di Gesù, volle rompere gli stessi
schemi da lui posti al fine di “diffondere” il suo verbo in tutto il
mondo.
Ma la narrazione diventa ancora
più vicina al libro di Saramago (pubblicato, ricordiamolo, nel 2001, in
italiano e attualmente edito da Feltrinelli), quando,
riferendosi alle sofferenze di Gesù Cristo, De André menziona il peso
delle voci dei padri dei bambini che furono uccisi a causa sua da Erode
(la nota “strage degli innocenti”).
Questo peso, porterà Gesù di
Saramago a scegliere di allontanarsi dalla casa familiare e in un certo
modo a compiere il volere di Dio.
La morte di Cristo, nell’opera di
De André è vissuta dagli occhi di chi condanna Gesù, dall’ipocrisia di
uomini preoccupati di mantenere solo il loro potere e che all’avvenuta
morte si preoccupano solo di controllare che i seguaci si disperdano nel
loro dolore e che ai piedi della croce vi sia solo la madre. Siamo
sicuri di non avere quest’atteggiamento quando ascoltiamo un
telegiornale con la consueta lista di morti e uccisioni? Siamo veramente
convinti di essere “diversi” da questi uomini di potere? E soprattutto
non riconosciamo questo atteggiamento negli uomini che detengono le
sorti della nostra storia?
Tre Madri
Il dolore, di tre madri che
piangono l’agonia e la morte dei loro figli, ma una di queste è speciale
come è speciale suo figlio, e per questo rimproverata dalle altre madri
di lasciare che loro piangano più forte perché se Gesù risorgerà
dopo tre giorni, i loro figli non torneranno più dalla morte. Eppure
Maria piange il fatto che se Gesù non fosse stato figlio di Dio sarebbe
ancora vivo come figlio suo! Atteggiamento naturale per una donna che è
stata “donna una volta” e “madre per sempre”: notevole il
rimprovero indiretto a Dio, di compiere il suo disegno usando Gesù che
qui si vorrebbe figlio di Giuseppe per sottrarlo alla triste agonia e
morte.
Nessuna madre reagirebbe
differentemente, pur nella certezza della fede in Dio. La pietas umana,
quel sentimento di compenetrazione nel dolore altrui, non potrebbe
generare altro che la reazione avuta dalla Maria di De André.
Il testamento di Tito
Canzone suonata spessissimo nei
concerti e conosciutissima, è il decalogo fatto dal ladrone buono,
quello che si impietosisce alla vista della morte di Gesù. E pur
sperimentando questo grande amore e senso di ingiustizia, ribadisce le
sue convinzioni: i biblici dieci comandamenti sono rispettabili
relativamente alla propria appartenenza sociale. Facile non rubare se si
hanno già i soldi, o amare un padre che non usa il bastone per educarti,
non nominare il nome di Dio invano, se non si ha bisogno. Chi è Tito?
Chi, almeno una volta nella vita, non ha pensato ad una sola delle
affermazioni che quest’uomo fa in punto di morte?
Laudate Hominem
Capolavoro del disco, in cui il
coro impone il pensiero di De Andrè con la forza che solo la moltitudine
degli umili, degli straccioni può dare. Impressionante il logico progredire dei versi:
"Il potere che cercava / il
nostro umore / mentre uccideva / nel nome d'un dio, /nel nome d'un dio /
uccideva un uomo: / nel nome di quel dio / si assolse. / Poi, poi
chiamò dio / poi chiamò dio / poi chiamò dio quell'uomo / e nel suo nome
/ nuovo nome / altri uomini, / altri, altri uomini / uccise "
E la logica conseguenza:
[…] “nel nome d'un dio / che il
male non volle, il male non volle, / finché / restò uomo / uomo. / Non
posso pensarti figlio di Dio / ma figlio dell'uomo, fratello anche mio”.
E quindi diamo lode all’Uomo.
Non mi sento di aggiungere commenti, ma molto ci sarebbe da dire.
Saramago, nel già citato “Vangelo secondo Gesù Cristo”
esalta l’uomo nei confronti di un Dio avido di potere. Non volendo
svelare nulla di quest’ottimo libro di cui suggerisco la lettura, è
comunque lapalissiana l’affermazione dell’indipendenza dell’uomo dalle
forze del male e del bene, capace di riuscire a discernere il male nel
bene e il bene nel male.
Concetto comunque non lontano da
quello insito nella religione cristiana (e non solo), in cui il libero
arbitrio è sovrano: l’uomo decide il suo destino, mentre Dio è il suo
giudice.
Sinteticamente Faber loda l’uomo,
come fonte sicura e rassicurante, unica garante della pace sulla terra
quando si fida di se stesso e non affida il suo destino in mano ad alcun
Dio.
Duro, sicuramente da accettare, ma una visione materialistica delle realtà degna di profondo rispetto.
Montag
settembre 2012 (pubblicato anche su www.rottersclub.net)
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